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Caravaggio che rinasce, di Fabrizio Accardo

Un cerchio diviso in due parti eguali, ma non secondo il diametro geometrico; una bianca, al cui

interno si trova un cerchio più piccolo di colore nero ed una nera, al cui interno si trova un cerchio

più piccolo di colore bianco.

È il celebre simbolo del “Tao”, o meglio “Taijitu”, che in cinese vuol dire “via”.

Nella cultura occidentale è stato semplificato come simbolo dello “yin e yang” e rappresenta il

cammino, il divenire di tutte le cose, un flusso che si realizza con un movimento che oscilla tra due

estremi.

Nel momento in cui uno dei due viene raggiunto, un’energia spinge in direzione contraria, in un

ciclo senza fine. Sono principi opposti ma complementari allo stesso tempo: il femminile e il

maschile, il sole e la luna, la primavera e l’autunno, il freddo e il caldo, l’oscurità e la luce.

Tutta la vita di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, così come tutta la sua arte, è una continua,

drammatica, affascinante e tormentata lotta tra forze opposte.

Una serie di lampi luminosissimi nella più buia delle notti.

Il nero nel bianco; il bianco nel nero. Opposti e complementari.

La sua pittura rivoluzionaria si fonda sulla rappresentazione del “vero visibile”, svelato dalla luce,

nel tragico duello con l’ombra.

Ma tutta la sua esistenza, più in generale, è come una sceneggiatura affascinante e drammatica,

basata sull’attrito tra energie contrapposte.

Conosce la morte troppo presto, con il dramma della peste, conosce la solitudine e la miseria, fa la fame, inizia a fuggire, e proprio quando finalmente riesce a fare emergere il suo altissimo talento naturalistico e rivoluzionario, il suo codice genetico, impregnato di desiderio di autodistruzione, lo spinge a ripiombare nelle tenebre.

Fino all’omicidio, la pena capitale, l’ennesima fuga.

Napoli, Malta, Siracusa, Messina, di nuovo Napoli.

E la drammatica morte, all’inseguimento della grazia papale.

Tutto giocato sull’impossibile equilibrio tra vertigini di estremi opposti.

La luce accecante e divina della fama, del successo, del denaro, di una profonda spiritualità e le

tenebre della solitudine, della miseria, della sofferenza, della fuga perenne, della miscredenza.

A Malta sbarcherà osannato come “il nuovo Apelle” e fuggirà rocambolescamente, dopo una

romanzesca evasione dal carcere, “tamquam membrum putridum et foetidum”.

Il tragico duello è dunque la cifra della vita e dell’opera di Caravaggio.

Il buio e la luce.

Ma anche la voglia di redenzione. La voglia di rinascere. E di ricominciare.

Ecco perché la scelta di approfondire la grande tela caravaggesca siciliana della “Resurrezione di

Lazzaro”.

Quando il ricco commerciante genovese Giovan Battista de’ Lazzari, alla fine del 1608, chiede a

Caravaggio, giunto a Messina in fuga da Siracusa, di realizzare una “Madonna con Bambino, San Giovanni Battista e altri santi” per la Cappella del coro della Chiesa dei Santi Pietro e Paolo dei Pisani, il pittore lombardo sa già che non sarà quello il soggetto che realizzerà.

In omaggio al cognome del generoso committente ed alla sua stessa parabola esistenziale,

Caravaggio vuole dipingere Lazzaro che risorge, citato nel (solo) Vangelo di Giovanni.

I nove decimi del dipinto precipitano dentro un vortice di tenebre nero bitume.

Sono le tenebre della morte, della fine di tutto, dell’assenza di speranze.

A sinistra un groviglio di volti cerca di scorgere l’imminente miracolo, solennemente annunciato da

Gesù, in piena ombra, che, con il gesto della mano, memore del segno della chiamata di Matteo in san Luigi dei Francesi, invita il defunto ad alzarsi ed a venire fuori dal sepolcro.

Subito accanto, alcuni manovali alzano la lastra sepolcrale; un altro solleva il cadavere.

Si scorge la fatica, lo sgomento, quasi il disgusto, l’olezzo, ma anche il profondo stupore. Lazzaro

ha ancora il livore e la rigidità della morte, ma sta ridestandosi.


Le sue braccia tese formano una croce con il tronco del corpo e con le gambe, prefigurazione della crocifissione.

La luce sovrannaturale affluisce da sinistra, scorre lungo il braccio di Cristo, sfiora l’arto destro di

Lazzaro, in un nuovo soffio vitale, e conduce il nostro sguardo sino al palmo aperto della mano

sinistra del miracolato, che quasi sfiora ossa e teschi, precipitando verso il basso.

Lazzaro è sospeso tra vita e la morte.

Tra salvezza e abisso.

Una mano tende verso la luce. L’altra verso la tomba.

Tutto è ancora in bilico.

Il rigor mortis ed il ridestarsi.

Lo sgomento dei necrofori e la dolcezza della guancia di Marta premuta così vicino a quella del

fratello.

È sempre più difficile per la luce farsi spazio tra le tenebre ed è sempre più difficile per Caravaggio

vedere davvero la salvezza, e, più in generale, credervi.

Ma c’è sempre uno spazio per ghermire la redenzione.  

E lo si vede nel modo in cui egli stesso si ritrae nel dipinto, poco distante da Cristo.

È l’unico che guarda fuori dal quadro.

Fissa la sorgente della luce.

Cerca in essa la liberazione.

La speranza.

Quella fonte divina, che irrompe nel dipinto, e che riesce a ridestare i defunti.

È ancora possibile un nuovo inizio.

Una rinascita.

Come nel simbolo del Tao, la vita di Caravaggio è un continuo movimento che oscilla tra due

estremi. L’efferatezza e la grazia divina. L’oscurità e la luce.

Ma non vi è una separazione netta.

Nella stessa persona coesistono infiniti opposti.

Caravaggio lo sa bene e sa che vi è sempre la possibilità di una redenzione. Una mano sfiora la

tomba, un’altra riceve un nuovo miracoloso soffio vitale. Caravaggio ne è consapevole e fino

all’ultimo dei suoi respiri tenta di catturare l’espiazione delle sue colpe, la liberazione dal male. La

salvezza della sua anima.

La Resurrezione di Lazzaro, capolavoro cupo e singolare di Caravaggio, vuole proprio parlare di

nuovi inizi.

Della possibilità per chiunque di espiare le proprie colpe (chi non ne ha?).

Della possibilità di ricominciare.




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