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Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, G. Leopardi

Aggiornamento: 18 mag 2023

I

“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi che fai,

silenziosa luna?”


Il tramonto del sole è un breve momento. Poi il crepuscolo colora l’orizzonte di porpora e viola, finché ogni cosa, piani deserti montagne, è immersa nel buio della notte.

Ma la luna è lì, fresca e silenziosa come una fanciulla, ed è lì perché il pastore la veda, l’ammiri, le parli. Nel buio della notte deserta, le uniche luci sono loro due, il pastore e la luna - due attori illuminati dall’occhio di bue sul palcoscenico della vita.

E la vita è quella di sempre, vuota eppur piena di cose, banale eppure intensa, e i due la camminano insieme, lontani eppure vicini. Arriveranno insieme alla loro meta?


II

“Vecchierel bianco, infermo,

mezzo vestito e scalzo”

Un vecchio corre verso qualcosa. Non si ferma mai, né si cura del tempo, delle stagioni, delle ferite che lacerano la sua pelle insanguinando la strada che percorre.

Corre e non si ferma mai. E poi la vede, la sua meta: è lì, affascinante ed orribile, un vuoto che non ha mai fine, e sa che lo stava aspettando, e che il suo abbraccio fatale gli darà l’unico significato possibile al suo infinito correre. (In fondo, non corriamo sempre? non corriamo tutti, gioiosi ed annoiati, verso l’unico sogno possibile?).

È la vita questa, il pastore lo sa. E la luna?


III

“Nasce l’uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento”

Ah!, l’ossimoro più attraente! La vita mortale; la morte vitale.

Il pastore è arguto come un filosofo, tragico come un poeta. Ricorda la sua nascita, forse, si rivede fagotto piangente ed urlante; ritrova i genitori nell’atto di consolarlo. E così per il resto dei suoi giorni: dolore e amore e ancora dolore.

Cosa c’è, in mezzo, cosa d’altro fra il nascere ed il morire, se non l’illusione che qualcuno ci possa amare e dare speranze ed illusioni?

È così anche per te, vergine luna, o tu sei diversa?


IV

“Pur tu, solinga, eterna peregrina,

che sì pensosa sei, tu forse intendi”

Eppure la vita è bella! Tutto quello che ci circonda è bello a vedersi! Se solo se ne potesse capire il significato!

Che significa nascere? e cosa il morire ed essere costretti ad abbandonare l’usata compagnia? Perché il tempo corre? e a quale amato ride la primavera, a chi giova l’estate o quale frutto può recare la rigidezza invernale?

Perfino delle compagne della fanciulla-luna il pastore ammira l’eterna bellezza, la luminosità infinita, ma adesso gli viene più difficile affratellarsi a tutte loro, lui ed il suo gregge, così piccoli, così semplici, così banalmente finiti.

Dunque il non sapere toglie il velo d’ogni bellezza e ne scopre, se non la falsità, l’inutilità: a che mi serve tanta bellezza, se non so neppure chi sono e cosa faccio, qui, adesso?

Bene, eppure c’è una sola cosa che il nostro pastore-filosofo-poeta sa, e cioè che tutto quello che vede, sia fuori sia dentro di sé, forse a qualcuno gioverà, non a lui, che ne avverte solo il male…


V

“O greggia mia che posi, oh te beata,

che la miseria tua, credo, non sai!”

Il male è tutto in questa noia che ci opprime, ci soffoca, accompagna ogni attimo della nostra giornata. È in questa inerzia del cuore che ci affanna, perché non ci fa piangere, come di una pena ricevuta, né sperare, come di un desiderio attraente.

Lei è lì, eterna come la natura, è lì, nostra sorella e madre e compagna, e non ci abbandona mai, neppure quando riposiamo, anzi, soprattutto in quel momento. (Come sarebbe bello poter avere quell’oggetto che ho tanto desiderato! Mi sentirei appagato, se potessi possedere tutto ciò che si vende, tutto quello che attrae, tutto, tutto…!).

Il pastore guarda i suoi quieti animali e li invidia. Come sembrano beati nella loro ottusa tranquillità! Perché a lui è negata ogni pace interiore? (A che servono le conquiste della scienza, a cosa la padronanza dello spazio infinito, se siamo in guerra gli uni con gli altri, e con noi stessi?).


VI

“Forse s’avess’io l’ale

da volar su le nubi”

Ecco, l’ultima possibile salvezza.

Essere come gli animali: come gli uccelli, che possono allontanarsi dalle meschinità della terra e slanciarsi verso la nobiltà del cielo; come i tuoni, possenti e inafferrabili, capaci di affrontare i gioghi impervi delle montagne.

Ecco, forse così sarebbe tutto più facile, si sfuggirebbe alla noia, alla necessità d’avere tutto, desiderare tutto, si potrebbe infine fare a meno di cercare il senso di ogni cosa.

O forse non è neppure questa la risposta, perché l’unica risposta è che non c’è alcuna risposta, e il pastore che, ahimè, non riesce ad essere poeta, ma solo filosofo, lo sa. Non importa chi o cosa si è, giacché “è funesto a chi nasce il dì natale”.


Francesco Scrima, docente di Lettere


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