Richiesto da Leo Frobenius, etnologo tedesco, che svolse la sua attività all’inizio del ‘900 soprattutto in terra africana, su dove terminasse la terra, un nomade mauro rispose esattamente così: “Dove la terra tocca il cielo”.
A questo punto si inserì nella conversazione Diarra, un indigeno sudanese che con forza ribatté al mauro: “Il cielo non tocca mai la terra!”.
Probabilmente la risposta del mauro derivava proprio dal suo essere nomade. Egli abitava una tenda facilmente smontabile e ricomponibile nei luoghi in cui lo portavano le sue necessità ed era indotto per questo a considerare la tenda più un abito che una abitazione; mentre il convincimento del sudanese proveniva dal fatto di vivere in case di fango. Questi viveva all’interno di muri saldi e sicuri, al di là del quale si apriva lo spazio libero del cielo; diversamente, per il nomade quello stesso spazio si disegnava in modo da rappresentare l’orizzonte certo e garantito in cui si svolgevano le sue esperienze.
Entrambi comunque, sembravano mossi dall’esigenza di trasferire sul cosmo le loro esperienze e di rintracciare nel cielo i confini su cui basare la loro esistenza e il senso da conferire al loro essere personale e collettivo. C.G. Jung, fondatore di un orientamento psicanalitico parallelo a quello freudiano, più attento alla dimensione collettiva dell’inconscio, traeva spunto dalla figura del “mandala” di tradizioni religiose orientali e rappresentazione simbolica dell’ordine cosmico e vi vedeva il simbolo di un’entità profonda dell’animo umano; quella stessa figura che in varie culture, anche eterogenee e distanti tra loro nel tempo e nello spazio, presiedeva ai riti di fondazione delle città: dall’Africa, studiata proprio da Frobenius, alle antiche città romane.
Viene da chiedersi se ancora oggi osservare la volta stellata aiuti ad aprire una lente che ci permetta di guardare dentro noi stessi. Ricorrono spesso nei nostri tempi, in ambiti svariati di carattere scientifico e culturale, termini che vengono composti utilizzando prefissi come poli- o multi-. Si parla per l’appunto di “multiverso” in ambito astronomico e perfino, e forse non a caso, in ambito urbanistico, di città strutturate come sistemi di “poliferie”. Certo, la ricerca risente - qualunque sia il piano su cui definisce i suoi compiti - di apporti di vario genere e spesso aiuta a innescare nella nostra mente modi nuovi e differenti di elaborazione del nostro essere soprattutto sociale. Indipendentemente dalle interpretazioni che si possono dare su apporti e incroci di varia natura culturale o scientifica o semplicemente esperienziale, l’immagine di un mondo fondato sulla “multiculturalità”, “multietnico” se si preferisce, costruito su cerchi, liberamente intersecantisi o corrispondentesi o solo anche semplicemente orientati parallelamente, potrebbe essere quella oggi più adeguata a rappresentare il nostro vivere.
Mi sovviene adesso che Il dialogo tra il nomade mauro e l’indigeno sudanese avvenne sulla scorta di una contesa più ampia. Ciascuno di loro sosteneva di discendere dal popolo fondatore dell’antico Regno del Ghana e il loro scontro mi fa ricordare che tutte le questioni, soprattutto, quelle che pretendono di ricondurci alla esclusività della nostra identità, magari facendole risalire a un passato lontano, si qualificano come questioni di potere; che i poteri per potersi imporre ricorrono sempre alla edificazione di muri “saldi e sicuri”; che un incontro può tradursi in uno scontro se l’altro viene fatto avvertire come una minaccia, se il racconto della nostra identità non tiene conto dei confini incerti entro cui essa si costruisce.
Pasquale Cangialosi, docente di Storia e Filosofia
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