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Le cosmicomiche di Italo Calvino

Quelli che corrono dalla stesura della Giornata di uno scrutatore pubblicata nel 1963 alle Cosmicomiche, pubblicate nel 1965, erano gli anni in cui, dopo “il miracolo economico”, cominciavano ad evidenziarsi i limiti e gli aspetti negativi del rapido sviluppo industriale, gli anni in cui iniziava a manifestarsi l'insofferenza, anni caratterizzati da tensioni politiche e culturali via via più forti. Allo sviluppo economico fanno, infatti, riscontro la caduta degli ideali della Resistenza, la ricerca di un nuovo assetto politico che porterà alla formazione del centro-sinistra, la crisi degli intellettuali che tentano vie ed esperienze diverse.

Calvino prova una svolta sperimentale con la composizione di un'opera che sembra evasione dalla realtà, ma è scavo profondo alla ricerca delle segrete radici dell'esistenza, di un “senso della vita che può ricominciare da zero”. Le cosmicomiche rappresentano un'esperienza artistica del tutto nuova: non si tratta di racconti di fantascienza, ma di liberi voli della fantasia a cui l'autore, partendo da ipotesi e congetture scientifiche, si abbandona seguendo il proprio congeniale gusto per la favola. Egli si avventura in una dimensione cosmica dove spazio e tempo non hanno più limiti né confini, dove la materia primordiale, ancora indistinta e confusa, sussulta alla ricerca di una forma e di una coscienza. Calvino, con lucida intelligenza critica e limpida fantasia, approda a una forma espressiva nuova, sviluppando temi e stili già presenti nelle opere precedenti.

La separazione dal mondo del Barone rampante, la mutilazione del Visconte dimezzato, l'assoluto non essere del Cavaliere inesistente e il “mondo senza fortuna” del Cottolengo, si collocano all'inizio della linea di sviluppo che porta alla composizione delle Cosnicomiche: l'umano “non ha confini se non quelli che gli danno”.

Il titolo dell'opera è un neologismo, di cui l'autore stesso sottolinea la reversibilità quando parla di “uno speciale racconto comicosmico (o cosmicomico)” (Caffè, aprile 1964), volendo sottolineare, da un lato, l'atteggiamento con cui viene osservata la realtà del nostro tempo e dall'altro, l'ansia del superamento dei limiti dell'esistenza umano che si traduce spesso in slancio lirico.

Ciascuno dei dodici racconti della raccolta è preceduto da una breve ipotesi scientifica scaturita dalle letture e dagli interessi alimentati, forse, anche dal fervore delle ricerche spaziali effettuate in quel periodo: “La scienza contemporanea non ci dà più immagini da rappresentare; il mondo che ci apre è al di là d'ogni possibile immagine” (Caffè, cit.). La fantasia spazia nel campo dell'astronomia, della geologia, della biologia, della fisica e, pur nel rispetto delle leggi scientifiche, si libra libera e ariosa, ricca e pregnante di nuove suggestioni.

Scienza e letteratura si completano e si alimentano vicendevolmente. I racconti si sviluppano in maniera autonoma, sia nei temi che nella struttura, legati tra loro solo dalla figura del protagonista Qfwfq e del cosmo, teatro e, nello stesso tempo, materia-oggetto di trasformazioni mirabili, pur costituendo un'opera omogenea per quel senso del divenire cosmico che li permea, per quella tensione della materia che si forma e si trasforma e che è tensione morale dell'autore e rigore stilistico insieme.

Il protagonista, Qfwfq, è l'io, la voce narrante che presuppone un ascoltatore, un “curatore” che abbia raccolto trascritto le sue parole senza preoccuparsi dell'incongruenza di alcuni punti, ma mirando soprattutto alla sorpresa. Qfwfq è presente in tutti i racconti sotto forma di entità di volta in volta diverse che riflettono varie tappe del lungo e travagliato processo di trasformazione del cosmo e della materia che eternamente si rinnova; è il simbolo dell'eterno fluire della vita che si afferma nonostante la fine delle generazioni e delle epoche, una sorta di coscienza universale permeata del senso antico dell'esistenza e dell'amara consapevolezza che ne deriva.

Ogni racconto propone un tema diverso: il segno, il gesto, la possibilità, il caso, la relazione; temi, nella maggior parte dei casi di natura concettuale, ma di straordinaria modernità, poiché nella loro valenza universale rispecchiano la condizione dell'uomo con i suoi interrogativi, la sua insicurezza, le sue frustrazioni, la sua incapacità di comunicare al di là dei banali rapporti quotidiani: in questo senso, Le cosmicomiche potrebbero leggersi come una metafora della solitudine umana. In tutti i racconti, però, si afferma la razionalità, la capacità critica dello scrittore che ricerca soluzioni nuove, che rifiuta il vuoto, il nulla, il non essere, e tende alla vita in tutte le sue multiformi manifestazioni.

Alcuni racconti appaiono costruiti su uno schema rigido, con un gioco incalzante di immagini; è il caso del primo, La distanza dalla luna, che risulta piuttosto arido nella sua articolazione. Altri sono riuscitissimi per la felicità delle immagini, per la fluidità del tono, per quel senso di incantato stupore che li attraversa. Cito, come esempi, la descrizione dello spazio sconfinato in Senza colori, l'ebbrezza che il protagonista prova per una possibile imminente conquista in Un segno nello spazio, la meraviglia che lo assale, ancora in Senza colori, di fronte a un mondo nuovo che nasce, l'intenso turbamento che invade l'animo di fronte alla solennità della morte nel racconto I dinosauri, nel bellissimo brano in cui viene descritto lo scheletro del dinosauro morto, al quale fa da contrappunto, nella parte finale, la vitalità della nuova generazione che avanza rigogliosa alla conquista di un nuovo spazio vitale. Attorno al protagonista ruota un microcosmo di personaggi secondari, a volte complementari, a volte antagonisti (il sordo, il Decano, Kgwgk, il Tenente Fenimore, ecc.), la cui gerarchizzazione, presente sia nei rapporti di parentela (il babbo e la mamma, la nonna Bb'b, gli zii, la sorella G'd(w)ₙ, lo zio acquatico N'ba N'ga) sia in quelli sociali (il capitano Vhd Vhd, il Decano (k)yK, il tenente Fenimore), non viene guardata con occhio benevolo dall'autore che critica l'immobilismo rappresentato dai personaggi, la mentalità statica, l'atteggiamento diffidente nei confronti del nuovo, un certo opportunismo.

Qfwfq viene presentato come un'entità decisamente maschile (anche in contrasto con le leggi biologiche, come nella Spirale, in quanto i molluschi sono ermafroditi), che cerca nella femmina il completamento di sé stesso, proteso in un vagheggiamento erotico intenso che non riesce mai a concretizzarsi in un legame duraturo. C'è nel rapporto amoroso difficoltà di dialogo, mancanza di sincronia nei gusti e nelle scelte, l'ansia di non apparire se stessi, di non essere accettati per quello che si è.

Vive, misteriose e sfuggenti sono le figure femminili che sembrano irraggiungibili e assorte in un sogno. Esse hanno qualcosa che richiama alla mente le divinità dell'antica mitologia: Proserpina, Euridice, Diana, le Sirene.

Qfwfq racconta in tono ciarliero e colloquiale esprimendo spesso ironia e autoironia. Il linguaggio è intessuto di immagini ricavate dall'esperienza quotidiana e caratterizzato dall'uso frequente di paragoni (“Come un nero ombrello”, “come anguille”, “come chiare d'uovo” ecc.), di immagini metaforiche (“il ventre della luna”, “le pieghe nude e tenere della polpa terrestre”, “un fiume di vuoto”, ecc.), di espressioni della lingua parlata (“e chi c'era c'era, “nudo e crudo”, “a occhio e croce”, ecc.).

Lo spazio raffigurato coincide con l'atto stesso dello scrivere di Calvino, il quale, con ambigua ironia, sembra dire che la scrittura inventa sogni di compenetrazione intima e nello stesso tempo li dissolve in quanto costruzione fittizia sul reale. La scrittura di fatto viene immaginata come un filo nero aggrovigliato che, teso da una mano invisibile, si riduce a una serie di linee parallele incomunicanti e vuote di qualsiasi significato. Ardita metafora della generale incomunicabilità e, al tempo stesso, dell'inganno che si cela dietro il sogno di far coincidere vita e scrittura. Frequente è il ricorso alle sorprese (cfr. la conclusione dei Dinosauri), il rapido passaggio da una scena all'altra, le trasformazioni inaspettate, gli spostamenti improvvisi, la collocazione diacronica degli avvenimenti, gli anacronismi (per esempio in Sul far del giorno: “Camberra nel 1912 non era stata ancora fondata”).

Numerosi sono gli squarci descrittivi, talvolta di straordinaria bellezza, che hanno spesso un afflato lirico. La lingua è rigorosa, nitida e, nello stesso tempo, ricca e duttile, anche quando il discorso investe il campo scientifico.

L'opera si legge con piacere ed è stimolante non solo per la peculiarità della sua struttura e dei suoi contenuti, ma perché invita alla riflessione sull'uomo e sul suo destino, sulla parola e sulla letteratura, così come dice l'autore stesso: “Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse incline a una forte introversione, a una scontentezza del mondo com'è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull'immobilità delle parole mute” (Lezioni americane).


Marilena La Rosa, docente in Lettere


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