Del passato ciò che veramente importa è ciò che si dimentica. Ciò che si ricorda è soltanto sedimento e scoria. Ciò che importa, ciò che è destinato a sopravvivere, sopravvive apparentemente in segreto, in realtà nel modo più palese, giacché sopravvive come materia esistente di chi ha sperimentato il passato: come presente vivente, non come memoria di passato morto -F.Jesi, Inattualità di Dioniso
Rinascita, Rinascimento sono termini che possiedono una altissima forza evocativa. Sono termini che, come altri, per questo stesso fatto, manifestano un’attitudine a coprire un ventaglio di significati piuttosto ampio, partecipabili all’uomo, il quale, attraverso il loro disvelamento, può cercare di recuperare le radici del proprio essere e anche, cosa non secondaria, la giustificazione del proprio agire.
E’ per questo bisogno che la situazione storica ed esistenziale critica dei nostri giorni induce l’uomo a guardare con fiducia alla propria “rinascita”, ad aprirsi ad essa; chissà che non si produca quel ricongiungimento tra microcosmo e macrocosmo, tra uomo e mondo che proprio il Rinascimento, quello storico, rese possibile!
Ma proprio quella stessa attitudine, la stessa plurivalenza di significati di cui certe parole risultano depositarie, può far sì che debordino dal loro campo semantico, fino a incorrere nel rischio di non significare più “nulla”. E’ possibile allora che, appena si esca dall’ambito proprio in cui questi termini hanno una loro evidenza e sono perciò circoscrivibili – si intende, per esempio, l’ambito degli studi storici, di storia dell’arte, di letteratura, di storia delle religioni e ogni altro che comporti attenzione e riflessione – possano venire adoperati per gli usi più svariati; usi che, trovando sostegno comunque da quella forza, non avvertono neanche la necessità di doversi chiarire o collocare storicamente o posizionare nel campo delle idee con le quali si vuole interagire. E’ capitato, per esempio, qualche tempo fa che, durante un incontro tra un senatore delle Repubblica italiana e un emiro arabo, sia stata evocata la locuzione “Nuovo Rinascimento”. Chiunque possieda una certa sensibilità culturale non può non aver colto una stonatura, un fastidioso stridore. Lo stesso stridore che è possibile avvertire di fronte a un mobile moderno in stile Rinascimento, che tuttavia non possiede l’originalità che il vero Rinascimento fece fiorire in numerose opere.
Rinasce sempre qualcosa che c’è già stato, che magari nel tempo è rimasto nascosto e che comunque è destinato a tornare a manifestarsi, magari sotto nuove forme, attraverso nuovi soggetti. E’ così che ciò che è “più antico”, proprio per la sua prossimità all’ “origine”, può pensarsi anche come ciò che è “più giovane”. Anzi proprio quella prossimità sembrerebbe essere garanzia di freschezza, di giovinezza per tutto quanto si propone. Su questa base risulterebbe possibile dare vita a operazioni tanto di avanguardia quanto di retroguardia e quindi postulare un fondamentale consenso tra svariati atteggiamenti. Diversamente, mettere in discussione l’essenza stessa in cui ogni “origine” si pone, significherebbe mettere in discussione le fondamenta stesse di una civiltà; dare vita a una furia iconoclastica che ne pregiudicherebbe la stessa esistenza.
Ma tutto ciò che si pone come origine ricade sempre nella storia. E’ memoria, frutto di una costruzione che ha luogo nel tempo. E’ ciò per cui credenze, saperi, comportamenti, riferimenti valoriali, assetti e dinamiche sociali e politiche si combinano e connotano il modo di essere di una forma determinata di vita. E’ altresì ciò che alimenta il paradosso secondo cui quanto è comunque collocato nel tempo, si ritrovi in un certo momento cristallizzato, immobilizzato, fino ad assumere valore eterno, significato quasi sacrale; a farsi intendere come un eterno presente che però finisce col coincidere tristemente con un proprio personale presente, individuale e soggettivo.
Sciogliere questo paradosso sembra quasi impossibile; sempre viva si affaccia, soprattutto in campo politico, la volontà di impadronirsi di elementi provenienti dal passato a cui si conferisce un significato secondo un uso proprio (improprio).
Neanche le parole maggiormente portatrici di novità, le più profetiche e rivoluzionarie sembrano sfuggire a un certo destino. Ci sarà sempre una forza, un potere pronto a anestetizzare, a indebolire ciò che nella realtà si propone e che trarrà anzi da esso l’opportunità per edificare monumenti. Questi veicolano memoria e, in quanto portatori di essa, risultano da operazioni di selezione che riflettono sempre il punto di vista e gli interessi degli edificatori di monumenti, che
solitamente si tengono a debita distanza dal “sacrificio” di cui spesso i monumenti sono testimonianza.
Un modo per sovvertire il racconto della storia secondo le prospettive utilizzate dai “potenti”, dai “vincitori” è stato proposto dal filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940), figura di intellettuale ebreo, irregolare, morto come ebbe a dire l’amico Theodor W. Adorno (1903-1969) “mentre cercava riparo dagli sgherri di Hitler”. La sua filosofia della storia presuppone un modo peculiare di intendere la memoria e il tempo. La memoria non sarà allora quell’insieme di saperi e pratiche esibiti spesso come patrimonio, come la “gloria” in cui una civiltà ha potuto manifestarsi, di cui però magari non si attenziona la profondità e la giusta distanza che ci separa da loro. Il tempo non sarà quello lineare utilizzato dallo storicismo, che trova una giustificazione per ogni passato, ma sarà una sorta di linea spezzata, che traccerà una discontinuità nei tempi, un qualcosa di molto vicino a ciò che gli antichi greci intendevano con il termine kairòs, traducibile in modo approssimativo con il termine occasione. Non il tempo inteso come chrònos, lineare e vuoto, ma il tempo pieno inteso come apertura, attuazione di tutte quelle possibilità che la Storia ha trascurato, occultato, sepolto e infine taciuto.
Questa idea di storia Benjamin l’ha ravvisata nella figura di un angelo dipinta da Paul Klee. Si tratta di un acquerello intitolato “Angelus Novus”, che per un certo tempo ha posseduto e che ora si trova al museo d’arte di Tel Aviv. Ecco cosa dice Benjamin:
«Un dipinto di Klee intitolato Angelus Novus mostra un angelo che sembra sul punto di allontanarsi da qualcosa che sta contemplando con sguardo bloccato. I suoi occhi sono fissi, la bocca è aperta, le ali spiegate. Così ci si raffigura l'angelo della storia. Il suo volto è rivolto al passato. Laddove leggiamo una catena di eventi, lui vede un'unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi. L'angelo vorrebbe restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta sta soffiando dal Paradiso, che ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l'angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso» -W.Benjamin; Tesi sul concetto di storia
In queste righe è possibile cogliere tanto una decostruzione del mito del progresso che quotidianamente ci avvolge, quanto una “concreta” riposta allo spirito di rassegnazione che durante la crisi può prendere campo. Guardare al passato non significherà riproposizione di stadi storico-culturali ritenuti più autentici e nemmeno una sua rimozione totale, in quanto superato e inattuale. Si tratterà, al contrario, di adottare uno sguardo, sì inattuale, ma nel senso nietzchiano del termine, come atteggiamento con cui scardinare le certezze del presente; un muoversi controcorrente nel paesaggio in cui ci troviamo coi suoi luoghi comuni e le sue banalità correnti, con quel continuo fagocitare, consumare e rilasciare ciò che si produce, sia che si tratti di formule identitarie, di narrazioni fondatrici, di soluzioni avveniristiche, di beni di consumo e anche di “beni spirituali”, mentre ciò di cui si dovrebbe avere bisogno oggi sarebbe di restituire corpo alle parole. Ciò che le parole ci chiedono è di essere risignificate.
Una voce in tale senso è possibile ascoltarla nella poesia di Paul Celan (1920-
1970) poeta di lingua tedesca nato in Romania, che ha avuto sterminata la famiglia
durante la Shoah. Egli ha scritto poesia incrociando in qualche modo la denuncia di
T.W. Adorno, il quale aveva detto che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere oggi poesie”. Il pericolo rilevato da Adorno era ovviamente quello della estetizzazione della tragedia della Shoah, un suo svuotamento fatale anche attraverso l’uso di parole o di riscatto o consolatorie o comunque pronunciate secondo le migliori intenzioni.
Parla anche tu
Parla anche tu
parla per ultimo,
di’ cosa pensi. Parla – ma non
dividere il sì dal no. Da’ senso
anche al tuo pensiero: dagli
ombra.
Dagli ombra che basti, tanta quanta
tu sai attorno a te divisa fra
mezzanotte e mezzodì e
mezzanotte.
Guardati intorno:
vedi come in giro si rivive –
Per la morte! Si rivive!
Dice il vero, chi parla di ombre.
Ma ora si stringe il luogo dove
stai:
adesso dove andrai, spogliato dell’ombre, dove?
Sali. A tasto innàlzati.
Più sottile divieni, quasi altro, più
fine! Più fine: un filo, lungo il quale
vuole scendere, la stella:
per giù nuotare, giù, dove
essa si vede brillare: nel
mareggiare di errabonde
parole.
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